Un algoritmo che assegna i turni non è mai solo un algoritmo.

E' l'efficienza del sistema o il benessere delle persone che lo fanno funzionare?
21 ottobre 2025 di
Massimiliano. Basile

Quando la tecnologia ti controlla: siamo davvero più liberi o più sorvegliati?

C'è un paradosso che attraversa i nostri uffici, le nostre fabbriche, i nostri luoghi di lavoro: più strumenti abbiamo per essere efficienti, meno ci sentiamo padroni del nostro tempo. Il 73% dei lavoratori italiani usa quotidianamente tecnologie digitali, ma cosa stiamo davvero guadagnando da questa trasformazione? E soprattutto: a che prezzo?

L'indagine  OSH Pulse 2025 dell'EU-OSHA ci mette di fronte a un dato scomodo:

il 33% dei lavoratori italiani si sente monitorato nelle proprie attività tramite sistemi digitali, e il 31% afferma che la tecnologia definisce direttamente ritmi e modalità di lavoro. Pensateci un attimo. Un lavoratore su tre vive con la sensazione che qualcuno – o qualcosa – stia costantemente guardando cosa fa, come lo fa, quanto velocemente lo fa.

Il tradimento della promessa digitale

Doveva renderci più liberi, più creativi, più produttivi. Invece? Il 49% dei lavoratori italiani segnala una riduzione della possibilità di prendere decisioni autonome e il 57% percepisce un calo della capacità di utilizzare appieno le proprie competenze. Più della metà delle persone sente che la tecnologia, anziché valorizzare ciò che sa fare, lo sta progressivamente svuotando di senso.

Guardate l'infografica: il 57% dice che il digitale riduce la capacità di usare conoscenze e competenze, il 49% lamenta meno autonomia decisionale, il 22% sente le proprie mansioni diventare insignificanti. Non sono numeri astratti. Sono persone che ogni mattina si alzano sapendo che un algoritmo ha già deciso cosa faranno, come lo faranno, e quando lo faranno.

La gabbia invisibile dell'automazione

Ma è quando entriamo nel dettaglio che il quadro si fa davvero inquietante. Il 33% dei lavoratori italiani viene monitorato direttamente nel lavoro e nel comportamento, il 28% riceve istruzioni automatiche per completare le attività, il 25% ha prestazioni valutate automaticamente da terzi.

Sapete cosa significa tutto questo? Significa che stiamo costruendo luoghi di lavoro dove la fiducia è sostituita dalla sorveglianza, dove il giudizio umano cede il passo alla metrica algoritmica, dove ogni secondo può essere tracciato, misurato, ottimizzato. Vi sentireste a vostro agio lavorando così?

E non è finita: il 25% dei lavoratori si vede assegnare automaticamente compiti e turni. La pianificazione, quell'attività così umana che richiede comprensione del contesto, delle persone, delle situazioni, diventa una questione di righe in un database.

Il paradosso italiano: meno tech, più controllo. Perché?

Fermiamoci un attimo sui numeri, perché raccontano una storia controintuitiva che dice molto su come lavoriamo in Italia.

Solo il 7% dei lavoratori italiani usa strumenti alimentati dall'intelligenza artificiale, contro il 18% della media europea. Praticamente un terzo. I dispositivi indossabili? L'11% contro il 13% dell'UE. I robot che interagiscono con le persone? 3% contro 3%. Le macchine dotate di IA decisionale? 3% contro 6%, la metà.

Eppure – ed è qui che la storia si fa interessante – il 33% dei lavoratori italiani si sente monitorato nei propri comportamenti lavorativi, contro il 26% europeo. Il 31% dice che la tecnologia definisce il ritmo del suo lavoro, contro il 28% UE. Il 49% lamenta una riduzione dell'autonomia decisionale, contro il 30% europeo. Quasi il doppio.

Come è possibile? Come può un Paese tecnologicamente meno avanzato produrre una percezione più forte di controllo e perdita di autonomia?

  • Il problema non è quanta tecnologia, ma come arriva

La risposta sta probabilmente in quel "arriva male" che ho scritto prima, ma vale la pena scomporre questa frase. Perché quando dico che la tecnologia "arriva male" in Italia, non sto facendo retorica. Sto descrivendo un modello di implementazione che ha caratteristiche precise.

Primo: l'assenza di mediazione culturale. In molte realtà italiane, soprattutto nelle PMI che costituiscono l'ossatura del nostro tessuto produttivo, la tecnologia viene introdotta come un fatto compiuto. Non c'è preparazione, non c'è gradualità, non c'è spiegazione del perché. Un giorno c'è il badge che timbravi entrando e uscendo, il giorno dopo c'è un software che traccia ogni tua attività, ogni pausa, ogni movimento. Zero contesto. Zero senso.

Vi è mai capitato? Un lunedì mattina scopri che devi usare un nuovo sistema, nessuno ti ha chiesto cosa ne pensi, nessuno ti ha spiegato a cosa serve davvero, e soprattutto nessuno ti ha detto chi vedrà quei dati e come li userà. È un'imposizione, non un'evoluzione.

  • La tecnologia come strumento di sfiducia

Secondo: il deficit di fiducia organizzativa. Qui tocchiamo un punto dolente della cultura aziendale italiana. In molti contesti, la tecnologia non viene percepita come uno strumento per lavorare meglio, ma come uno strumento per controllare che si lavori. La differenza è abissale.

Quando installi un software di monitoraggio delle attività senza spiegare che serve a ottimizzare i flussi, ma lasciando intendere che serve a "vedere chi lavora davvero", il messaggio è chiaro: non ci fidiamo di te. E se il 57% dei lavoratori italiani pensa che rivelare un problema di salute mentale comprometterebbe la carriera – dieci punti più della media UE – forse questo clima di sfiducia sistemica è più diffuso di quanto vogliamo ammettere.

  • Il gap della formazione digitale

Terzo: la formazione è un optional. Guardate ancora l'infografica: solo il 34% dei luoghi di lavoro italiani offre sensibilizzazione e formazione sul benessere e la gestione dello stress, contro il 45% della media europea. Se non formi le persone su come gestire lo stress, figuriamoci se le formi su come usare consapevolmente la tecnologia.

Il risultato? Hai lavoratori che usano strumenti di cui non capiscono la logica, in contesti dove nessuno spiega le regole, con la sensazione che ogni click sia giudicato. Non serve l'intelligenza artificiale per creare un ambiente oppressivo. Basta un banale software di gestione turni usato senza trasparenza.

  • La sindrome del "modernizzarsi in fretta"

C'è anche un'altra ipotesi, più sottile. L'Italia è storicamente un Paese di "ritardatari tecnologici" che poi si modernizza a strappi, per necessità o per pressione competitiva. Quando finalmente adotti la tecnologia, lo fai tardi ma anche male, saltando tutti i passaggi intermedi che altri Paesi hanno fatto gradualmente.

Non attraversi la fase di sperimentazione, di aggiustamento, di ascolto dei feedback. Salti direttamente alla "soluzione definitiva", spesso copiata da contesti completamente diversi, senza adattarla alla tua realtà organizzativa, culturale, relazionale. È come mettere un vestito taglia 50 a chi porta la 42: tecnicamente ce l'hai addosso, ma ti sta malissimo e ti limita ogni movimento.

  • Il paradosso nel paradosso: più arretrati, più controllati

E qui emerge il paradosso nel paradosso: proprio perché siamo indietro tecnologicamente, quando adottiamo la tecnologia la usiamo in modo primitivo. La usiamo per controllare, non per abilitare. Per vincolare, non per liberare. Per misurare, non per capire.

Pensate alla differenza: un'azienda nordeuropea che da vent'anni lavora con strumenti digitali ha avuto il tempo di sbagliare, correggere, ascoltare i lavoratori, capire cosa funziona e cosa no. Ha sviluppato una cultura della trasparenza sui dati, della partecipazione nelle decisioni tecnologiche, del bilanciamento tra efficienza e benessere.

Un'azienda italiana che introduce quei stessi strumenti nel 2025 salta tutto questo percorso. E cosa fa? Li usa come li usavano negli anni 2000: come sistemi di sorveglianza e controllo. Con l'aggravante che oggi la tecnologia è infinitamente più pervasiva e potente di allora.

  • La questione del "perché" dimenticato

Ma c'è un'altra dimensione che va esplorata: il senso. Il 22% dei lavoratori italiani sente che le proprie mansioni diventano insignificanti o inutili a causa della digitalizzazione. È una percentuale enorme. Uno su cinque non capisce più perché fa quello che fa.

E forse è proprio questo il cuore del problema italiano: implementiamo la tecnologia senza interrogarci sul senso. Digitalizziamo perché "bisogna digitalizzare". Monitoriamo perché "tutti monitorano". Automatizziamo perché "l'automazione è il futuro". Ma perché esattamente lo facciamo in quella specifica azienda, in quel specifico processo, con quelle specifiche persone? Questa domanda raramente viene posta.

Risultato: hai lavoratori che usano strumenti di cui non capiscono il senso, in processi di cui non vedono la logica, per raggiungere obiettivi che nessuno ha spiegato chiaramente. E questo, questo sì che genera la percezione di essere controllati. Perché quando non capisci il senso di una cosa, l'unica spiegazione che ti rimane è: mi stanno controllando.

  • Il fattore dimensionale che aggrava tutto

E poi c'è la questione strutturale: il 66% delle grandi imprese offre percorsi di formazione sul benessere, contro il 42% delle microimprese. In un Paese dove le PMI sono la maggioranza assoluta del tessuto produttivo, questo è un problema enorme.

Le piccole aziende hanno meno risorse, meno competenze interne, meno capacità di gestire il cambiamento tecnologico in modo strategico. Comprano "il software" o "il sistema" da un fornitore esterno, lo installano, e poi... buona fortuna. Nessun piano di change management, nessun coinvolgimento dei lavoratori, nessuna valutazione d'impatto.

La tecnologia arriva come un fulmine: improvvisa, potente, e traumatica. E siccome nelle PMI i rapporti sono più diretti e personali, quando la fiducia si incrina per un'imposizione tecnologica mal gestita, l'effetto è amplificato. Il capo che prima ti conosceva, ora ti monitora con un software. Come pensi che ti senta?

  • La domanda vera: vogliamo recuperare o ripensare?

Allora, il paradosso italiano ci pone davanti a una scelta strategica. Vogliamo "recuperare il ritardo" tecnologico copiando acriticamente quello che fanno altrove? O vogliamo costruire un nostro modello di digitalizzazione che tenga conto delle nostre specificità: il tessuto di PMI, la cultura del lavoro relazionale, la necessità di ricostruire fiducia?

Perché se continuiamo così – poca tecnologia ma usata male, arrivata tardi ma imposta in fretta, sofisticata nei tool ma primitiva nell'approccio – il risultato è già scritto: avremo la peggiore combinazione possibile. Tutti gli svantaggi della digitalizzazione (controllo, perdita di senso, stress) e pochi dei vantaggi (efficienza, flessibilità, valorizzazione delle competenze).

E forse, giusto forse, dovremmo iniziare a chiederci: ma se siamo "indietro", dobbiamo davvero correre per raggiungere chi ci precede? O possiamo permetterci il lusso di imparare dai loro errori e costruire qualcosa di diverso?

Perché se il 57% dei tuoi lavoratori sente che la tecnologia riduce la capacità di usare le proprie competenze, forse il problema non è che sei in ritardo. Il problema è che stai andando nella direzione sbagliata.

Lo stress digitale che non si vede

La digitalizzazione non è neutra e può amplificare lo stress, ridurre la motivazione e incidere sul senso di appartenenza se non accompagnata da processi partecipativi e trasparenti. Questa frase dell'indagine dovrebbe essere stampata e appesa in ogni ufficio risorse umane del Paese.

Perché quando parliamo di salute mentale sul lavoro – e un lavoratore italiano su tre riferisce problemi di stress, depressione o ansia legati al proprio impiego – non possiamo fingere che la tecnologia sia neutrale. Non lo è. Può liberare o soffocare. Può valorizzare o svuotare. Dipende da come la usiamo.

La domanda che dovremmo farci

Allora, la questione vera è: vogliamo continuare a subire la digitalizzazione come un fenomeno naturale, inevitabile, quasi metereologico? Oppure è arrivato il momento di dire che ogni scelta tecnologica è prima di tutto una scelta politica, organizzativa, umana?

Perché un algoritmo che assegna i turni non è mai solo un algoritmo. È una dichiarazione su cosa conta davvero: l'efficienza del sistema o il benessere delle persone che lo fanno funzionare. E finora, diciamocelo, abbiamo scelto il sistema.

Forse è ora di scegliere diversamente.